Le Patologie Carotidee: Terapia Medica o Chirurgica? Note di Semeiotica e Fisiopatologia.

Introduzione

Affrontare il problema che riguarda le stenosi carotidee, degli ictus che ne possono conseguire e le relative problematiche con dei “non addetti ai lavori” (mi si scusi la libertà dell’affermazione) non è cosa semplice. Verrebbe troppo semplice dire “le stenosi si operano tutte!”. Questa affermazione in realtà racchiude molte verità, ma necessita anche di alcune distinzioni e, soprattutto, una preparazione di base.

La chirurgia delle carotidi ha subito, negli ultimi 20 anni, una evoluzione sia diagnostica che tecnica che un tempo era impensabile.
Nel contempo anche il numero di persone operate per questo tipo di patologia è aumentato in maniera esponenziale a tal punto che a volte ci si domanda se questa problematica non sia un poco “inflazionata”.
La realtà è che la popolazione anziana è percentualmente aumentata moltissimo proprio in questi ultimi 20 anni mentre la diagnostica strumentale, soprattutto con l’uso degli ecoDoppler, ha raggiunto una capillare distribuzione sia negli ospedali che negli studi, anche privati.
Affrontare questo argomento senza avere comunque basi sia anatomo-patologiche e di semeiotica, clinica ma anche chirurgica potrebbe essere un’occasione perduta. Ritengo sia quindi utile fare un percorso in questo senso anche per fare da un lato didattica e dall’altro il punto della situazione attuale, comunque sempre in evoluzione.
Inoltre, ci si domanda: “a chi spetta prendersi cura di questa patologia o della prevenzione?”.
Questa domanda trova una risposta articolata e complessa allo stesso tempo in quanto andrebbe distinta la parte strettamente “medica o non chirurgica”, quindi di prevenzione, da quella propriamente chirurgica, quindi interventistica.
La cura, medica o chirurgica che sia, ha finora coinvolto prettamente tre branche specialistiche ognuna delle quali assume la paternità della cura e/o terapia.
Da Angiologo e Chirurgo Vascolare storicamente mi sono sempre occupato, per circa 30 anni, di stenosi carotidee, della loro diagnosi e terapia medica ed evoluzione clinica nonché del controllo post operatorio. In questo lungo lasso di tempo le tecniche diagnostiche, chirurgiche ma anche anestesiologiche associate alla chirurgia vascolare si sono evolute moltissimo. La chirurgia della carotide era un tempo un vero “campo di battaglia”, non tanto per il gesto chirurgico di per se ma per le possibili ed innumerevoli conseguenze (complicanze) del post intervento, quasi nella totalità di tipo neurologico.
Ecco allora l’intervento del Neurologo e Neurochirurgo, che in contrapposizione al Chirurgo Vascolare hanno sempre più spesso ritenuto essere il vero operatore di questa patologia, proprio perché le conseguenze di un “non intervento” piuttosto che di una complicanza postoperatoria conducono alla via neurologica. Non va inoltre scordato che, soprattutto con gli interventi chirurgici “a cielo aperto” con la visualizzazione diretta della carotide comune, carotide interna ed esterna, l’anatomia topografica per la preparazione di questi vasi richiede una perfetta conoscenza della ricca innervazione del collo. Da qui la “paternità” di questo tipo di intervento.
Anche i Cardiologi e Cardiochirurghi hanno sempre preteso il loro spazio nella cura, preventiva i primi ed operatoria i secondi, in quanto giustamente considerano l’aspetto “polidistrettuale” della patologia, cioè associata anche a problematiche cardiache, mediche (ipertensione e dislipidemie) che chirurgiche (cardiopatie ischemiche o dell’arco aortico ed i vasi che si collegano all’arco aortico). In realtà sono più i cardiologi a prendersi cura della parte propriamente medica/preventiva, grazie anche alle loro indiscusse capacità internistiche nel “visitare” i pazienti (il classico soffio carotideo che viene riscontrato col fonendoscopio), piuttosto che i cardiochirurghi ad affrontare il problema carotideo, salvo quando quest’ultimo potrebbe rendere oltremodo rischiosa la procedura chirurgica cardiaca.
I Radiologi e Neuroradiologi Interventisti sono, per così dire, la new entry per questa procedura interventistica. Il loro avvento è stato a dir poco dirompente con lo svilupparsi della terapia endovascolare. Per anni i chirurghi vascolari si sono avvalsi della collaborazione dei radiologi per gli studi angiografici. L’avvento delle angiografie digitali prima e delle angioTC ed angioRM poi, hanno permesso di avere immagini diagnostiche perfette oltre che migliorare enormemente le procedure chirurgiche.
Con l’arrivo e lo sviluppo della chirurgia endovascolare era naturale trovare questi Specialisti già pronti ed in prima linea nell’intervenire. Dalla loro parte c’era la loro bravura e conoscenza dei materiali ma per contro la scarsa dimestichezza nel trattare “fisicamente” le placche, non avendole mai “toccate con mano” come i chirurghi veri e propri.
Da queste osservazioni nasce e si sviluppa la chirurgia delle carotidi lungo il loro decorso extracranico. Sarebbe impossibile parlarne senza aver fatto queste premesse, seppur brevi.

Storia ed evoluzione clinica della Patologia Carotidea.

In questi ultimi anni si è assistito all’incremento della durata media della vita, passando infatti da 55 anni nel 1940 a 78 anni nel 2000. Fatte queste premesse, l’ictus ischemico, patologia tipica dell’età avanzata, avrebbe dovuto risentire di questo trend dando luogo ad un aumento dell’incidenza. Contrariamente alle aspettative questa incidenza è invece diminuita. Nonostante ciò l’ictus è sempre da considerarsi una malattia capace di portare a morte decine di migliaia di persone all’anno in tutto il mondo oppure condurre un numero ancora superiore ad una vita estremamente invalidante, magari per diversi anni, con conseguenze sia sociali e famigliari oltre che economiche. Le conseguenze di un ictus ischemico sono inoltre in grado di cambiare, in peggio, la qualità della vita di un’intera famiglia.
I dati forniti dall’OMS relativi al 2000, la mortalità per accidente cerebrovascolare nei soggetti maschi fino a 70 anni di età risulta compresa tra 60 e 230 per 100,000 abitanti con varianti che cambiano da Paese a Paese. Negli USA nel 2000 i decessi a causa di ictus sono stati circa 170,000. La prevalenza varia tra 4 e 8% mentre l’incidenza è compresa tra l’1 ed il 3,5%.
Poiché i dati di mortalità risentono dell’accuratezza metodologica nel porre diagnosi, dell’attendibilità nella certificazione delle cause di malattia, della codificazione e classificazione delle singole cause di morte, no sempre possono essere considerati lo specchio fedele dell’andamento clinico della malattia.
Da uno studio epidemiologico eseguito a Rochester in un periodo di 15 anni su pazienti colpiti da ictus ischemico, risulta che un nuovo episodio apoplettico si verifica nel 27% circa dei casi.
Secondo alcuni Autori (Moore et Al.), l’incidenza di ictus in pazienti che hanno manifestato un attacco ischemico transitorio (TIA) è del 23, 27 e 45% rispettivamente a 1,3 e 5 anni.
Oltre all’ovvia importanza dell’estensione della lesione e della sua sede, i fattori meglio definiti di prognosi infausta sono l’età avanzata, la presenza di cardiopatia ischemica o di scompenso cardiaco, l’ipercolesterolemia e l’iperglicemia. La diminuzione della mortalità per ictus (4-5%/anno) osservata in diversi studi e numerosi Paesi, indica che l’incidenza di tali eventi è condizionata da fattori modificabili attraverso interventi medico-profilattici. L’identificazione dell’ipertensione come fattore di rischio e il maggior credito dato all’efficacia dell’intervento chirurgico, sono stati i maggiori determinanti della ridotta incidenza.
Grazie all’apporto di studi anatomopatologici e delle indagini angiografiche prima e angioRMN più recentemente, si è riscontrato che la lesione primitiva è localizzata nel 75% dei casi in sede extracranica (50% dei casi alla biforcazione carotidea)e che un’occlusione a valle, endocranica, avviene molto spesso per microembolia o per l’estensione della trombosi della carotide verso la periferia. L’intervento chirurgico della tromboendoarteriectomia (TEA) per le lesioni della carotide extracranica ha sostanzialmente modificato la storia naturale della aterosclerosi carotidea.
Da uno studio condotto diversi anni fa, su pazienti colpiti da TIA e portatori di lesioni unilaterali della carotide risulta una sopravvivenza dell’81% dopo 42 mesi nei malati trattati chirurgicamente, contro una sopravvivenza del 64% nei soggetti no operati.
Secondo Moore la presenza di una stenosi ulcerata alla biforcazione carotidea inferiore al 50%, in paziente asintomatico, porta ad una incidenza di ictus del 6% /anno nei pazienti non operati. Sempre secondo lo stesso Autore nei pazienti asintomatici operati di TEA carotidea per stenosi maggiori del 50%, l’incidenza di ictus scende dal 21 all’8% a 5 anni.

Aspetto Etiopatologico

L’aterosclerosi è la principale causa dell’instaurarsi di lesioni occlusive dei distretti carotidei lungo il segmento extracranico.
La lesione clinicamente significativa è la placca, che può avere consistenza prevalentemente calcifica, lipidica oppure mista con la parte lipidica prevalentemente nella parte centrale. Può andare incontro ad una evoluzione degenerativa quale calcificazione completa, emorragia intramurale, ulcerazione intimale, trombosi.
L’emorragia di placca è solitamente la responsabile, nella maggior parte dei casi, della sintomatologia clinica. La placca ulcerata della biforcazione carotidea ha abitualmente una prognosi più sfavorevole. Moore et Al. ad esempio riferisce una incidenza annuale di ictus del 12,5% in pazienti con lesioni ulcerative di vario grado con poca differenza se l’ulcerazione è a carico di una placca altamente stenosante o a basso profilo. L’ulcerazione espone il tessuto sottoendoteliale, che è maggiormente trombogenico. Gli emboli originati da una lesione aterosclerotica ulcerata e che si liberano nel lume arterioso possono andare a localizzarsi in un vaso di piccolo o grande calibro a seconda delle dimensioni dell’embolo stesso e dare origine ai diversi quadri di ischemia cerebrale.
I luoghi di predilezione nella localizzazione di processi aterotrombotici extracranici sono la biforcazione carotidea, l’origine della carotide interna e l’origine ed il decorso della cerebrale media. Molte lesioni possono decorrere del tutto asintomatiche, essendo dipendenti dalla adeguatezza del circolo collaterale mentre, al contrario, si possono verificare episodi di ischemia cerebrale o infarto in presenza di stenosi arteriose anche minime.
La particolare predisposizione a livello della biforcazione carotidea è confermata da diversi studi che hanno dimostrato che le placche aterosclerotiche si localizzano più facilmente in regioni a bassa velocità di flusso e di separazione di flusso (come ad esempio anche alla biforcazione dell’arteria femorale comune che si biforca in femorale superficiale e profonda)e non in regioni ad alta velocità. In generale il processo aterosclerotico è più accentuato a carico dei primi 2 cm e sulla parete posteriore della carotide interna esteso spesso verso la carotide comune. Studi sulla biforcazione carotidea con modelli matematici, in vitro e ultrasuoni hanno dimostrato che il flusso si divide repentinamente alla biforcazione con un vortice di flusso retrogrado. Questo giustificherebbe la localizzazione della placca alla biforcazione carotidea e al primo tratto della carotide interna. Oltre un certo grado di stenosi una ulteriore piccola riduzione dell’area luminale produce una grande riduzione di pressione e di flusso nel segmento a valle della stenosi. La stenosi critica non è propriamente un valore costante, essa varia in diretta dipendenza con la sezione trasversa dell’area e inversamente con il flusso. Una stenosi arteriosa è generalmente considerata “emodinamicamente significativa” se il suo diametro interno è ridotto del 70% del normale, o al 90” di riduzione dell’area luminale.. In condizioni di stress o nel caso che necessiti un flusso aumentato, come ad esempio in un esercizio fisico prolungato, una stenosi del 50% di riduzione del diametro può già diventare una stenosi critica.
Oltre alla biforcazione carotidea, una localizzazione meno comune è individuabile nell’area del sifone carotideo, cioè intracranica, ed in prossimità dell’arteria oftalmica.
L’occlusione dell’arteria cerebrale media o dei suoi rami principali riconosce abitualmente una causa embolica. Tipicamente l’area infartuale che ne consegue è localizzata nella regione corticale e nella sottostante sostanza bianca. Sebbene questi vasi siano interessati dal processo aterosclerotico, la loro ostruzione da causa aterosclerotica è piuttosto rara.
Gli infarti lacunari sono piccole aree infartuali localizzate nei gangli basali e nella capsula interna e sono usualmente il risultato di una malattia ipertensiva che determina una ialinizzazione e sclerosi arteriolare con un ispessimento della parete vasale e restringimento del lume con conseguente ischemia del tessuto circostante. Gli infarti lacunari sono circa il 20% degli infarti cerebrali. Sebbene le dimensioni massime delle lacune non siano state stabilite, il loro diametro varia dai 2 ai 15 mm. Le loro localizzazioni più comuni sono in ordine di frequenza il nucleo lenticolare, basi pontine, talamo, nucleo caudato, capsula interna.
Studi flussimetrici hanno quantificato che flussi fra 20 e 25 ml/100g.tessuto/min. rappresentano i limiti dell’ischemia. Pazienti con flusso cerebrale al di sotto di questi valori facilmente sviluppano aree di ischemia tissutale. La comparsa degli infarti è strettamente correlata al grado e alla durata dell’ischemia. Essi possono svilupparsi dopo alcuni minuti in aree con flusso zero, ma possono richiedere anche ore in regioni dove il flusso è mantenuto al di sotto dei 10 ml/100g./min. Il flusso ematico nelle aree di ischemia focale incompleta non è omogeneo: si possono trovare aree di iperemia reattiva e di ipoperfusione, a volte coesistenti, nel tessuto circostante la zona infartuata.
Sulla base della riduzione di flusso che risulta, si possono riconoscere le seguenti sindromi ischemiche secondo la classificazione di Marsiglia del 1984:

  • Attacco ischemico transitorio (TIA): deficit neurologico di durata inferiore alle 24 ore. Può avere un’origine sia embolica che emodinamica; nel primo caso gli emboli sono nella maggior parte dei casi dovuti ad ulcerazione di placche localizzate a livello della biforcazione carotidea. L’ischemia su base emodinamica in genere viene attribuita ad una caduta della pressione di perfusione sistemica e creare un’area di ischemia a valle di una stenosi importante o di una occlusione.
  • Danno neurologico ischemico reversibile (RIND): deficit neurologico la cui durata è superiore a 24 ore e che ha una totale risoluzione generalmente entro 3 settimane. In pratica è un evento ischemico prolungato che non è arrivato ad un danno anatomico.
  • Ictus in evoluzione: in queste persone il deficit neurologico può andare incontro a miglioramento, peggioramento oppure fluttuare. Questa condizione e definizione è utilizzabile durante la fase acuta della malattia sino a tre settimane dall’esordio, al termine delle quali può essere riclassificato in una delle altre categorie.
  • Ictus stabilizzato: deficit neurologico stabilizzato che persiste oltre le 3 settimane dall’esordio. A sua volta si può suddividere in due sottocategorie: deficit lieve, quando il paziente rimane autosufficiente o deficit grave, quando è dipendente da un assistente per condurre la vita quotidiana; è lo stato finale di una ischemia prolungata.
  • A queste sindromi ischemiche, è da aggiungere l’ischemia cerebrale cronica, che è una sindrome da ipoperfusione cerebrale dovuta a lesioni multiple dei tronchi sovraaortici. Il paziente ha difficoltà a mantenere la posizione eretta, sensazione di debolezza ed episodi sincopali frequenti. E’ una situazione da distinguere dalle forme di demenza senile, o Malattia di Alzheimer.
  • Quando il flusso ematico cerebrale scende sotto il livello critico, circa 10ml/100g./min. si sviluppa una rapida alterazione del sistema di trasporto di membrana.
    La prima reazione del parenchima cerebrale è l’edema, sia intra che extracellulare; le alterazioni strutturali più precoci sono a carico di quei componenti del citoplasma con la più alta richiesta di ATP, come il reticolo endoplasmatico e la membrana cellulare.
    L’insufficiente perfusione cerebrale è associata con intensa produzione di acido lattico da parte dell’area ischemica o infartuale, con conseguente acidosi tessutale che può determinare una condizione di paralisi vasomotoria cerebrale.

I SINTOMI

L’ischemia cerebrale si manifesta con una grande varietà di sintomi e segni, più o meno manifesti.
In molti soggetti asintomatici, un soffio alla biforcazione carotidea o un embolo localizzato nel letto vascolare retinico è la sola indicazione di una condizione di potenziale rischio per la propria salute, se non per la vita.
Altri soggetti vanno incontro ad infarti cerebrali devastanti senza alcun sintomo o segno premonitore apparente.
Il segno classico di una malattia cerebrovascolare è un deficit neurologico focale a comparsa improvvisa. Il profilo temporale di questa ischemia è caratterizzato dal miglioramento o risoluzione dei sintomi dopo essere divenuti massimi.
In genere TIA, RIND e piccoli infarti cerebrali sono considerati segni premonitori di un deficit di perfusione molto più grave.
Nelle occlusioni della carotide interna il circolo collaterale supplente alla regione ischemica si sviluppa meglio se l’occlusione si determina lentamente piuttosto che improvvisamente e se le arterie, carotide esterna e del circolo di Willis sono pervie e, di conseguenza, parzialmente vicarianti.
Le manifestazioni dovute a malattia della carotide interna possono essere preannunciate dalla cecità passeggera di un occhio, dovuta all’interessamento dell’arteria oftalmica, oppure da sintomi emisferici.
Una lesione ateromatosa della biforcazione carotidea è più pericolosa di una ostruzione completa a causa della possibile ed imprevedibile embolizzazione.
Per occlusione del sifone carotideo, si sviluppa in genere un infarto a carico del territorio rifornito dalla cerebrale media e meno frequentemente dalla cerebrale anteriore.
Gli effetti dell’interessamento della cerebrale media variano in relazione con il sito dell’ostruzione. L’occlusione della sua origine può determinare sia un infarto corticale che del territorio irrorato dalle arterie striate laterali e cioè parte del globo pallido, caudato, capsula interna, radiazioni ottiche.
L’emiparesi risultante dall’occlusione della cerebrale media interessa la gamba, il braccio ed il volto. In alcuni casi invece che dell’emiparesi si può verificare solo l’ipostenia dei distretti menzionati.
Solitamente una sindrome della cerebrale media può essere classificata come di tipo anteriore o posteriore. L’ostruzione della divisione anteriore risulta in una aprassia più o meno associata a debolezza faciobrachiale e perdita sensoriale. Se la lesione interessa l’emisfero dominante vi è spesso anche afasia di Broca (buona comprensione ma marcato danno nella ripetizione).
Gli infarti a carico della divisione posteriore della cerebrale media generalmente non causano emiparesi ma, per l’interessamento dei territori contigui, possono indurre solo debolezza faciobrachiale e ridotta/perdita sensibilità.

Gli Infarti Lacunari
Nella maggior parte dei casi sono asintomatici. Talvolta queste lesioni possono manifestarsi con un TIA ed in tal caso identificabili con TC o RMN.
Quando diventano sintomatici la sindrome ischemica è importante per i segni che ne derivano: afasia, difetti del campo visivo, cambiamenti nella condizione mentale, umorale e comportamentale.

TIA Carotidei
L’episodio si verifica spesso in maniera imprevedibile, specie nelle prime ore del mattino, al risveglio; talvolta però può essere scatenato da attività fisica, da colpi di tosse o da improvviso cambio di postura.
L’attacco dura mediamente 3-15 minuti e raramente si prolunga oltre le 6 ore.
La sintomatologia dei TIA carotidei può essere differente da soggetto a soggetto ma tende ad essere stereotipata nello stesso paziente anche se nei singoli episodi può variare la durata, la gravità, e l’estensione del deficit neurologico. Solo di rado lo stesso paziente lamenta disturbi riconducibili a sofferenza di entrambi i sistemi carotidei o di un sistema carotideo associato a quello vertebrobasilare (TIA misto) durante lo stesso episodio clinico o in episodi distinti. Questo può comunque verificarsi per “fenomeni di furto ematico” intracerebrale oppure per la presenza di molteplici focolai aterosclerotici emboligeni.
In ordine di frequenza i sintomi sono:

  • Deficit motori: rappresentano insieme ai disturbi sensitivi i sintomi più frequenti dei TIA carotidei. Si manifestano sotto forma di riduzione di forza, di impaccio motorio o di senso di pesantezza a carico di un lato della faccia, di uno o entrambi gli arti controlaterali al sistema carotideo interessato.
    Più spesso si tratta di emiparesi e il deficit motorio interessa, nell’ordine, l’arto superiore, l’arto inferiore, l’emifaccia e l’arto superiore controlaterale. In alcuni casi i disturbi sono limitati ad una mano, all’emifaccia ed all’emilingua omolaterali.
  • Disturbi sensitivi: sono caratterizzati da parestesie, senso di addormentamento, diminuzione di sensibilità, distesie con la stessa distribuzione topografica dei deficit motori ai quali spesso si associano. Spesso però, possono costituire l’unica manifestazione clinica dell’episodio ischemico e pertanto difficilmente differenziabili dalle crisi epilettiche parziali sensitive.
  • Amaurosi fugace: si tratta di una transitoria e indolore perdita della vista in un occhio, totale o parziale, dovuta ad una temporanea diminuzione o abolizione del flusso arterioso retinico. L’episodio è in genere di breve durata, fino ad un massimo di qualche minuto, e può accompagnarsi a sintomi di interessamento emisferico (deficit motori e/o sensitivi controlaterali). Gli attacchi possono essere frequenti e ricorrenti, talora anche 50 o più episodi al giorno. Il ricupero della vista dopo un attacco di amaurosi è in genere graduale come la “comparsa di un immagine sul teleschermo” o come “luci che progressivamente si illuminano”. Il rilievo oftalmoscopico di emboli migranti nelle arteriole retiniche durante tali episodi e la notevole incidenza in questi pazienti di lesioni aterosclerotiche irregolari o ulcerate sulla carotide ipsilaterale all’occhio interessato, sottolineano l’importanza della patogenesi embolica in questa particolare forma clinica. In alcuni casi l’amaurosi fugace monoculare può rivelarsi in corso di aritmia cardiaca oppure episodio ipotensivo allorché esiste una grave stenosi o occlusione della carotide omolaterale. In queste situazioni, la caduta della pressione di perfusione nell’arteria oftalmica, branca diretta della carotide interna, eccede le riserve emodinamiche del circolo retinico rendendo sintomatica una situazione di stenocclusione carotidea, precedentemente subclinica.
  • Disfasia: i disturbi del linguaggio (tipo Broca o Werniche oppure misti) possono associarsi a disgrafia, dislessia o discalculia. Essi sono indice di sofferenza dell’emisfero dominante e spesso accompagnano altri deficit neurologici (sensitivi, motori, visivi). Quando una disfasia puramente espressiva si manifesta in maniera isolata, la disartria cerebellare può risultare difficile in quanto affidata alle sole capacità descrittive del paziente.
    Tutti i sintomi descritti possono essere accompagnati da capogiro, senso di stordimento, ma soprattutto da cefalea. Quest’ultima è in genere pulsante e localizzata in sede frontotemporale o fronto orbitaria. Essa potrebbe essere causata dalla dilatazione dei circoli collaterali in risposta alla riduzione di flusso nell’arteria interessata.
    Infine, un breve ma necessario accenno deve essere compiuto anche per possibili patologie inerenti i vasi contigui alle carotidi, se non altro per possibili “similitudini” in alcune manifestazioni sintomatiche.
    Sebbene non molto considerate per l’aspetto tipicamente chirurgico, le arterie vertebrali meritano il loro giusto rispetto, sia sotto il profilo diagnostico che dei disturbi che possono derivare.
    Basta considerare che, sotto il profilo puramente emodinamico, cioè “idraulico”, le due arterie vertebrali messe insieme trasportano la stessa quantità di sangue di una carotide interna. Il malfunzionamento di una arteria vertebrale, o la sua ostruzione sia essa di natura aterosclerotica, traumatica o perfino da patologia dissecante, può comportare dei sintomi più o meno gravi da far confondere anche un medico esperto e pensare ad una patologia carotidea.
    Una problematica vertebro-basilare è di difficile interpretazione alla solo valutazione ecoDoppler tanto da essere necessaria la conferma angioTC o angioRM.
    La sintomatologia può variare dalle più classiche manifestazioni di vertigini, deficit deambulatori, nausea e vomito fino a dei veri e propri attacchi ischemici a carico del cosiddetto “circolo posteriore”. L’ischemia vertebro-basilare andrà pertanto considerata nella diagnosi differenziale anche se, dal punto di vista terapeutico chirurgico, l’intervento sul sistema vertebrale non ha, almeno fino ad ora, avuto proseliti. Le ragioni sono prevalentemente di tipo anatomo-funzionale.
    In ultimo, sempre sotto il profilo dei sintomi e della diagnostica strumentale a carico del sistema vertebro basilare, non infrequente è il riscontro di una flussimetria “invertita”, cioè non verso la scatola cranica ma in direzione opposta. Questo fenomeno avviene per una patologia, generalmente su base esclusivamente aterosclerotica, della arteria succlavia. La stenosi serrata, o persino la sua occlusione, comporta un ”furto” del sangue dalla arteria vertebrale per vascolarizzare l’arto superiore omolaterale.
    Sintomi vertiginosi possono essere abbastanza comuni ma non tali da far pensare ad una patologia carotidea. In genere il problema si rende manifesto alla misurazione della PA, con rilevamenti molto più bassi dal lato della patologia succlavia. In nessun caso si arriva a prendere in considerazione un possibile problema carotideo o di un rischio cerebrale.

Come Comportarsi?

Fino a non molto tempo addietro, la conoscenza della clinica e della semeiotica facilitava enormemente la diagnosi o, quantomeno, l’orientamento diagnostico e quindi l’iter. Queste conoscenze non andrebbero trascurate anche se ci troviamo in un mondo ipertecnologico e ricco di scelte strumentali. L’episodio ischemico il più delle volte avviene in luoghi e momenti dove non si hanno apparecchi diagnostico strumentali alla portata di mano.
Fatta questa premessa, appare abbastanza ovvio che la prima domanda da porsi è “cosa fare”?
Inutile dire che viene spontaneo pensare, di fronte ad un attacco ischemico, alla causa e all’origine e quindi al rimedio: medico o chirurgico?
La diagnostica strumentale di fatto ha raggiunto livelli tali di perfezione che si possono effettuare diagnosi estremamente precise. Inoltre, gli esami ecoDoppler periodicamente effettuati su pazienti potenzialmente a rischio ci permettono di tenere sotto controllo sia l’aspetto flussimetrico e morfologico dei vasi sovraaortici così come dell’attività cardiaca. La prima cosa da fare, pertanto, nei pazienti cosiddetti “a rischio” (per età, familiarità, somma di fattori di rischio, precedenti episodi, malattia aterosclerotica polidistrettuale) è la prevenzione.
L’ecoDoppler, strumento entrato ormai nell’uso quotidiano in quasi tutti gli studi ambulatoriali, è l’unione di un ecografo che studia la parete vasale in associazione con un Doppler pulsato. Il segnale Doppler permette di individuare e distinguere i vari distretti carotidei anche solo mediante reperti sonori mentre l’ecografo consente di individuare con immagini anche le lesioni di parete più piccole. L’ecoDoppler (da ricordare anche il termine inglese di Duplex Scanning) ha di fatto compiuto una enorme evoluzione tecnologica in questi ultimi anni, grazie anche all’associazione dell’aspetto cromatico dell’immagine. Paradossalmente tutte queste funzioni, aspetto morfologico, colore e flussimetria, hanno reso apparentemente accessibile questa indagine strumentale a tutti mentre il vero limite alla metodica sta proprio nell’Operatore materiale dell’esame. Questo si è tradotto anche in numeri esageratamente alti d’interventi chirurgici o di indicazioni verso un tipo di intervento piuttosto che un altro. Di fatto l’esame ecoDoppler è Operatore dipendente e, mi permetto di dire dopo quasi 30 anni di diagnostica strumentale, troppi Operatori eseguono questo tipo di esame senza magari avere le adeguate conoscenze. Infatti, sarebbe molto utile, oltre a sapere “in teoria” come è fatta una arteria e la placca che la stenotizza, averla vista anche “dal vivo” possibilmente nell’ambito di sedute operatorie.

Chiusa questa parentesi, la prevenzione medica assume pertanto il primo compito alla terapia specifica contro un problema ischemico cerebrale. Fattori di rischio quali l’età, l’ipertensione, monitoraggio e cura della malattia cardiaca oltre all’educazione o correzione di abitudini di vita come il fumo, dislipidemia e glicemia, possono nel tempo evitare episodi ischemici cerebrali.
Le strategie terapeutiche qui si ricollegano, ancora una volta, alle competenze delle diverse “scuole di pensiero” e di Specializzazione.
Per l’Angiologo/Chirurgo Vascolare ed il primo fattore di rischio è quasi certamente il fumo ed il diabete, oltre che della valutazione della patologia aterosclerotica polidistrettuale e cardiopatie.
Per il Cardiologo ed il Neurologo, entrambi più improntati sulla preparazione “internistica” il danno maggiore è a carico della dislipidemia ed ipertensione oltre che a disfuzioni cardiache.
I Radiologi Interventisti non hanno molte voci in capitolo per la parte di prevenzione alla patologia ma, in compenso, sono molto agguerriti per la terapia post-intervento. L’impianto di stent richiede infatti, oltre ad un maggior numero di controlli ecoDoppler, una terapia antiaggregante piastrinica estremamente articolata per almeno 6-12 mesi e comunque impegnativa nel tempo.

Terapia Chirurgica
La tromboendoarteriectomia carotidea (TEA) è la metodica più frequentemente impiegata per il trattamento chirurgico dell’insufficienza cerebrovascolare da patologia carotidea su base aterosclerotica. (Fig.1,2,3)
L’opportunità di trattare con intervento chirurgico i pazienti sintomatici è quasi totalmente accettata.
La rimozione di una placca da una arteria può ristabilire il suo normale flusso laminare come pure può eliminare un potenziale rischio di trombi ed emboli.
Il monitoraggio intraoperatorio è una fase delicata dell’intervento di TEA. Durante l’intervento si verificano condizioni critiche di riduzione di flusso a livello cerebrale. Al momento del clampaggio carotideo l’irrorazione cerebrale dell’emisfero omolaterale è sostenuta dagli altri tre vasi, carotide controlaterale e sistema vertebrale, e dalla completezza e adeguatezza del circolo di Willis. Se il flusso scende al di sotto dei valori critici si rischia una ischemia cerebrale intraoperatoria. Si sono pertanto messe in atto diverse metodiche che tendono a rendere l’encefalo meno vulnerabile durante la procedura: l’alotano o enfluorano durante l’anestesia generale che aumentano il flusso cerebrale, i barbiturici che riducono il metabolismo cerebrale, l’ipercapnia che aumenta il flusso, l’aumento della pressione arteriosa sistemica e l’ipotermia. In genere però nessuna di queste metodiche si è rivelata però sufficiente a garantire una protezione cerebrale adeguata. Attualmente, il sistema più sicuro in grado di fornire una quantità di flusso equivalente a quello carotideo è un bypass, noto anche come shunt che, inserito tra la carotide comune e la carotide interna durante la fase di disobliterazione, permette di mantenere la perfusione. Il suo inserimento risulta potenzialmente pericoloso in quanto potenzialmente potrebbe provocare embolizzazioni o trombosi distali.
Per questo motivo l’utilizzo dello shunt avviene in maniera selettivo, in genere al momento del clampaggio del paziente il quale viene monitorizzato durante l’anestesia generale per un tempo prefissato, generalmente 3 minuti, mediante EEG, la misurazione dello stump pressure, rilievo dei potenziali evocati, ossimetria congiuntivale, ossimetria venosa giugulare. La capacità ed esperienza dell’anestesita in questa fase si dimostra oltremodo indispensabile.
Ciò nonostante i margini di complicanze da ischemia cerebrale intraoperatoria no sono trascurabili e possono variare dal 5 al 20%.
Per questo motivo in molte Strutture di chirurgia vascolare ha preso piede l’intervento in anestesia locoregionale che permette di affidare il monitoraggio della perfusione cerebrale al rilievo delle condizioni cliniche del paziente.
La metodica consiste nel blocco anestetico dei nervi cervicali C2 e C3 e di una infiltrazione sottocutanea sul bordo anteriore dello sternocleidomastoideo.
Al momento del clampaggio si invita il paziente a stringere in pugno un piccolo oggetto sonoro (benissimo ad esempio un giocattolo di gomma morbida) che viene tenuto nella mano controlaterale alla procedura chirurgica. Viene inoltre mantenuto un contatto verbale con l’anestesista.
Al clampaggio del complesso carotideo da operare, in caso di insufficiente vascolarizzazione dei circoli compensatori, si verifica in pochi secondi l’ipostenia del braccio e mano controlaterale con impossibilità a stringere e far suonare il pupazzetto di gomma. A seguire, pressoché contemporaneamente, viene lo stato confusionale ed incapacità di parlare con l’anestesista. Il fenomeno avviene nel giro di trenta secondi, al chè si provvede subito al declampaggio con ricupero dello stato antecedente e si programma l’utilizzo dello shunt temporaneo.
La tecnica chirurgica vera e propria, indipendentemente dal tipo di anestesia scelta, prevede l’esposizione l’esposizione della biforcazione carotidea mediante una incisione lungo il bordo anteriore sello sternocleidomastoideo. Dopo la sezione del tessuto sottocutaneo e del platisma e lo spostamento delle strutture muscolari, viene isolata e mobilizzata la vena giugulare interna. Si procede quindi all’isolamento della carotide comune, della carotide esterna e della carotide interna che viene riconosciuta per la sua posizione posterolaterale e per la totale assenza, a differenza della c. esterna, di vasi collaterali. Per eventualmente scongiurare fenomeni di bradicardia si pratica una modesta infiltrazione di lidocaina del glomo carotideo.
Dopo eparinizzazione per via sistemica, si effettua il clampaggio dei tre vasi carotidei, nell’ordine esterna-comune-interna e si rileva la tolleranza del paziente a questo gesto delicato e fondamentale per procedere.
Si pratica l’arteriotomia, in genere in senso longitudinale al vaso e si procede quindi con strumenti specifici alla rimozione della placca. Altra tecnica, detta “di eversione” prevede lo stacco fisico della carotide interna dalla biforcazione e la rimozione della placca rivoltando il vaso su se stesso, come un guanto.
In entrambi i casi, l’incisione viene chiusa con fili di sutura molto sottili e si procede alla rimozione dei clampaggi che hanno permesso di mantenere esangue il campo operatorio. L’ordine di questa fase prevede prima la carotide esterna quindi la comune e poi l’interna. Ciò permette che eventuali materiali residui o aria siano indirizzati verso la carotide esterna.
La procedura endovascolare,(Fig. 4,5) come si è già detto, viene principalmente utilizzata per casi di pazienti selezionati che troverebbero una difficile collocazione per la TEA. La metodica prevede, come ovvio, tutta una fase di studio e preparazione che è soprattutto mirata a valutare la conformazione del vaso carotideo da trattare. AngioTC e/o angioRM costituiscono pertanto elementi di fondamentale importanza preoperaroria.

L’intervento richiede la possibilità di adeguate via di accesso arteriose, in genere viene preferita la via femorale, per poter fisicamente introdurre i materiali necessari alla procedura: il filtro da posizionare sopra la placca per evitare i rischi di embolizzazione; il palloncino per effettuare la dilatazione e, in un secondo tempo, anche per fissare lo stent che servirà per mantenere il vaso aperto al passaggio del sangue oltre che per fissare le pareti da possibili flap che potrebbero ostacolare il lume stesso.
Questa tecnica, di per se apparentemente più semplice, richiede la perfetta conoscenza dei materiali ed una preparazione anche delle tecniche di radiologia. Sarebbe comunque opportuno che l’operatore abbia le necessarie capacità di poter comunque intervenire in entrambi i modi cosi da poter effettivamente scegliere per la procedura che ritiene più opportuna.

Note di Epidemiologia: La terapia chirurgica e la sua evoluzione nel tempo e quali sono le possibili prospettive per il futuro.

La chirurgia carotidea per la prevenzione dell’ictus cerebrale ischemico è in continua evoluzione, ancora oggi non sono del tutto comprese le relazioni tra patologia carotidea e squilibri emodinamici, tromboembolici e tissutali che sono alla base dell’evento ischemico cerebrale. Spesso si osservano discrepanze tra quadri anatomo-patologici vasculo-cerebrali seriamente compromessi senza rilevanti deficit e clinico-neurologici (è il caso di stenosi gravi od occlusioni vascolari del tutto asintomatiche, e/o infarti e atrofie cerebrali silenti) e, viceversa, quadri clinici e eclatanti di ictus anche invalidanti associati a lesioni anatomo-patologiche minime (infarti cerebrali più o meno estesi e ateromasie vascolari modeste). Sono quindi necessarie conoscenze più approfondite per definire meglio e in modo più preciso e concreto il concetto di “lesione carotidea a rischio”, e quindi, eleggibile per la chirurgia.

Vi è comune accordo nel riconoscere l’importanza della chirurgia carotidea nella prevenzione dell’ictus cerebrale ischemico. Vi è anche un’univocità nel ritenere la biforcazione carotidea al centro dell’attenzione in questo settore perché è il distretto anatomico più facilmente raggiungibile da metodiche diagnostiche e chirurgiche (rispetto a distretti più prossimali dell’arco aortico e origini dei tronchi sovra-aortici o distali intracranici), ma soprattutto perché essa è la sede più frequente della patologia aterosclerotica coinvolta nel meccanismo dell’ischemia cerebrale su base aterotromboembolica.
Senza dubbio possiamo affermare che i pazienti con stenosi carotidea sintomatica sono maggiormente a rischio di ictus rispetto a quelli con stenosi carotidea asintomatica di pari grado.
Lo studio NASCET (North American Symptomatic Carotid Endarterectomy Trial)che prevede metodi di misurazione della stenosi (due misure al livello della stenosi e a valle, in una sezione longitudinale; oppure separatamente in due sezioni trasversali al livello della stenosi e a valle ) riporta, per pazienti con stenosi carotidea sintomatica tra il 70% e il 99%, un’incidenza annuale di ictus del 13% entro il primo anno e del 35% a cinque anni, mentre nello studio Asymptomatic Carotid Endarterectomy Trial (ACAS) per pazienti con stenosi carotidea asintomatica tra il 60% e il 99% riporta un’incidenza annuale di ictus solo del 2% (in entrambi gli studì i dati si riferiscono ai gruppi di controllo di pazienti trattati con sola terapia medica). Lo studio NASCET ha dimostrato che la tromboendoarteriectomia carotidea (TEA) è sicuramente efficace nella riduzione del rischio ipsilaterale, quando il grado di stenosi è superiore al 70% (metodo NASCET).
Il NNT (Number Needed to Treat) per questi pazienti in termini di riduzione di ictus ipsilaterale disabilitante a due anni è 8 e a cinque anni è 13,2. È verosimile che il massimo beneficio ottenibile dall’intervento sia relativo a sottogruppi di pazienti che presentino il rischio più elevato di ictus (evento recente, sintomi cerebrali e non oculari, placca ulcerata, sesso maschile, età più avanzata. Una recente analisi del NASCET ha dimostrato un maggior beneficio a due anni della terapia chirurgica rispetto alla terapia medica per la stenosi carotidea sintomatica superiore al 70% in età più avanzata: per età > 75 anni la riduzione assoluta del rischio di ictus era del 28,9% con NNT 3; per età tra 65 e 74 anni era del 15,1% con NNT 7; per età < 65 anni la riduzione assoluta del rischio di ictus era 9,7% con NNT 10.9. Nel caso di stenosi inferiori al 50% (metodo NASCET) sono stati dimostrati svantaggi per il metodo chirurgico, che non deve essere quindi eseguito. Per i pazienti con stenosi fra il 50% ed il 69% (metodo NASCET) è stato dimostrato un certo grado di vantaggio (NNT = 21), ai limiti della significatività statistica (P=0,054). Anche per questo gruppo valgono le stesse considerazioni di possibile maggior beneficio in sottogruppi di pazienti a più elevato rischio di ictus. La stessa ri-analisi del NASCET ha dimostrato un più netto beneficio a due anni della terapia chirurgica rispetto alla terapia medica in questi pazienti di età superiore a 75 anni con riduzione assoluta di ictus pari al 17,3% corrispondente ad un NNT di 6.9.
L’indicazione chirurgica nei soggetti asintomatici resta ancora oggi senz’altro più discussa che nei sintomatici, anche se i dati relativi allo studio ACAS indicano un beneficio della TEA in soggetti asintomatici con stenosi carotidea uguale o superiore al 60% (valutata con il metodo NASCET), che si mostra solo a cinque anni. In questo studio infatti la TEA è risultata efficace in pazienti con stenosi carotidea asintomatica tra il 60% e il 99%, e solo alla condizione di un tasso di complicanze perioperatorie gravi (ictus invalidanti o morte) inferiore al 3%. A 5 anni la riduzione significativa di eventi gravi (ictus invalidanti o morte) era pari al 2,6% (NNT= 38) e quella relativa agli ictus non disabilitanti del 5,9% (NNT= 17). Proprio basandosi sui risultati dello studio ACAS una Review di Linee Guida e Consensus Statement Multidisciplinare della National Stroke Association, conferma una raccomandazione dell’American Heart Association per l’EAC in lesioni carotidea asintomatiche di almeno 60% di stenosi con un rischio chirurgico accettabile inferiore al 3%. È altrettanto vero però che una metanalisi, condotta su cinque studi con 2440 pazienti con stenosi asintomatica superiore al 50%, conclude che… per stenosi asintomatiche riduce si l’incidenza di ictus ipsilaterale, ma con basso beneficio assoluto (rischio assoluto 4,7% tre anni per il gruppo chirurgico vs.7,4% per il gruppo medico; riduzione assoluta di rischio 2,7%; NNT 37). Pertanto non dovrebbe essere raccomandata routinariamente, ma identificando i sottogruppi ritenuti ad alto rischio.
L’intervento chirurgico in caso di stenosi carotidea asintomatica è da considerarsi una sorta di investimento a lungo termine in quanto i benefici non sono dimostrabili nel breve tempo, anzi nei primi due anni dall’intervento il vantaggio dell’intervento è in negativo in quanto il tasso di complicanze perioperatorie può superare quello del rischio di ictus spontaneo. A distanza di oltre tre anni dall’intervento, invece, il beneficio sembra diventare sempre maggiore negli anni in quanto il rischio di ictus nel paziente operato rimane relativamente basso mentre aumenta progressivamente il rischio di ictus nel paziente di controllo non operato. È da ritenersi invece l’opposto per il paziente con stenosi carotidea sintomatica in cui l’incidenza di ictus grave o disabilitante, se il paziente non viene operato, è relativamente molto alto nelle prime settimane e poi progressivamente meno alto col passare del tempo e comunque tale per poi essere tollerato un tasso comunque accettabile di complicanze anche gravi perioperatorie.
Ad oggi il Chirurgo Vascolare ha davanti a sé due opzioni terapeutiche per trattare la lesione carotidea extra cranica: la chirurgia tradizionale TEA; e la Chirurgia Endovascolare, Angioplastica e Stenting Carotideo (ASC).
La TEA rappresenta il gold standard per la rivascolarizzazione carotidea, che è un intervento ormai consolidato con un’esperienza superiore a 50 anni. Il primo intervento di TEA con tecnica simile a quella odierna si deve far risalire al 1953, ad opera di Michel De Bakey. Eppure nella sua relativamente breve storia la TEA ha attraversato fasi alterne e movimentate che, solo negli anni 90, hanno condotto finalmente alla definitiva conferma quale valido metodo di prevenzione dell’ischemia cerebrale. Gli anni 60 e 70 portarono dapprima al perfezionamento della tecnica chirurgica, con lo sviluppo delle varie metodiche di monitoraggio, shunt, patch, eversione e controllo intraoperatorio del risultato chirurgico, poi alla diffusione dapprima lenta, quindi esplosiva dell’intervento, sino a renderlo il più frequente trattamento chirurgico vascolare, con 100.000 procedure di TEA all’anno negli Stati Uniti. Subentrò quindi un periodo di profonda critica alla TEA, con la comparsa in alcune Riviste Scientifiche di articoli che ponevano critiche dubitative sulla reale efficacia della procedura.
Vennero di conseguenza impostati gli Studi randomizzati di TEA versus “best medical treatment”, che nel 1991 portarono alla pubblicazione su Lancet e British Medical Journal dello storico articolo sulla sospensione, perché non etica, della randomizzazione con terapia medica per soggetti sintomatici con stenosi carotidea serrata, dato l’enorme vantaggio fornito a questi dalla chirurgia (riduzione dal 26% al 9% del rischio cumulativo di stroke a 2 anni). Negli anni più recenti è arrivata la conferma, con l’acquisizione dei risultati a distanza dei trial randomizzati internazionali, dell’efficacia della TEA nei pazienti sintomatici con stenosi superiore al 70% (ed in sottogruppi selezionati con stenosi tra 50-69%), ed anche negli asintomatici con stenosi superiore al 60%, purché le complicanze chirurgiche maggiori siano mantenute ad un livello minimo (3%).
Il primo pionieristico approccio endovascolare alla carotide si deve a Klaus Mathias, radiologo di Dortmund che nel 1979 eseguiva la prima angioplastica carotidea. Mathias utilizzava tecniche derivanti dalla sua esperienza di interventistica periferica: una guida 0.035” crossava la lesione carotidea, che successivamente veniva angioplasticata con catetere a palloncino in assenza di una diretta visualizzazione angiografica, utilizzando la colonna vertebrale come unico repere anatomico.
Le poche esperienze degli anni 80, per lo più rivolte a casi compassionevoli (pazienti considerati non idonei al trattamento chirurgico), erano aggravate da alti tassi di complicanze emboliche peri-procedurali, risultati agiografici sub-ottimali, restenosi ed occlusione precoce del vaso trattato.
È solo negli anni 90 che vengono introdotte due fondamentali rettifiche alla tecnica: l’utilizzo dello stent e di una device (paragonabile ad una specie di ombrellino “cattura emboli”) di protezione cerebrale. Queste modifiche hanno progressivamente mitigato almeno in parte le frequenti complicanze delle prime esperienze.
Ulteriori importanti miglioramenti della tecnica sono venuti con lo sviluppo di materiali dedicati per il territorio carotideo, e non più presi in prestito dall’interventistica coronaria e/o periferica. Gary Roubin ha il merito di aver migliorato notevolmente la tecnica di introduttori e guide lunghe, avanzate direttamente in carotide comune per la corretta visualizzazione della stenosi con mezzo di contrasto e soprattutto per garantire la stabilità necessaria per l’avanzamento dei devices in carotide interna.
Dal primo approccio di Mathias nel 1979 sono passati oltre trent’anni, ma in realtà la vera messa a punto della metodica di ASC con protezione cerebrale così come oggi viene routinariamente eseguita è solo degli anni 90 per merito di Theron.
Siamo quindi di fatto solo poco più di 20 anni di reale esperienza con questa metodica, ed assistiamo ancor oggi ad una costante graduale evoluzione della tecnica e soprattutto dei materiali con conseguenti miglioramenti dei risultati.
Le prime esperienze cliniche di ASC sono state incoraggiate dalla possibilità di offrire un’alternativa a quei pazienti con situazioni anatomiche locali tali da rendere complessa la classica EAC (re stenosi posta-chirurgica, collo ostile per irradiazione o pregressa chirurgia cervicale, biforcazioni alte, lesioni aterosclerotiche della carotide interna distale) o con alto rischio chirurgico, per la presenza di importanti co-morbilità.
Nel 1996 Dietrich riportò i risultati riguardanti 110 pazienti sintomatici con stenosi carotidea > 70%, ritenuti non idonee al trattamento chirurgico a causa della co-morbilità, secondo i criteri di arruolamento NASCET. Il successo immediato fu del 99,1%, la percentuale di morte/stroke a 30 giorni del 8,1%, più una percentuale di TIA pari al 4,5% per una percentuale globale di eventi neurologici totali/morte a 30 giorni del 12,6%.
Sulla base di questa prima esperienza si constatò che la percentuale di complicanze neurologiche peri-operatorie era da ritenersi troppo alte si convenne che la ASC dov’essere limitate ai casi di re-stenosi carotidea post TEA, biforcazione carotidea alta, lesioni nervose cervicali controlaterali, colli ostili, stenosi post-attiniche e pazienti ad alto rischio chirurgico.
Il processo di validazione di questa nuova metodica non può comunque esimerci dal confrontarsi con la chirurgia tradizionale in studi randomizzati.
Il Carotid and Vertebral Artery Transluminal Angioplasty Study (CAVATAS) è stato il primo trial clinico prospettico randomizzato a paragonare la sicurezza e l’efficacia della ASC rispetto alla TEA. I risultati di fase uno dello studio sono i seguenti: tra il 1992 ed il 1997 504 pazienti (96% sintomatici) portatori di stenosi carotidea superiore al 70% sono stati randomizzati in 2 bracci: uno chirurgico di 253 pazienti ed uno endovascolare comprendente 251 pazienti (da notare però che solo nel 26% delle procedure è stato utilizzato lo stent). La percentuale di eventi neurologici totali/morte a 30 giorni è risultata 6.3% del gruppo TEA, 6.4% nel gruppo ASC.
La sua significatività tuttavia è stata messa in discussione da più parti alla luce della percentuale di complicanze neurologiche perioperatorie della TEA considerata troppo elevata per gli standard imposti dalle linee guida.
Nello studio randomizzato SAPPHIRE (Stenting with Angioplasty and Protection in Patients at High-Risk for Endarterectomy) sono stati presentati i risultati più entusiasmanti. Il trial è stato condotto comparando procedure di ASC con protezione cerebrale vs EAC in pazienti ritenuti ad “alto rischio”, includendo pazienti sintomatici con stenosi carotidea > 50%e pazienti asintomatici con stenosi > 80%. Sono stati randomizzati 307 pazienti (156 ASC- 151 TEA). L’end-point morte/infarto preso in esame al 30 giorni si è dimostrato significativamente minore nel gruppo ASC ( 5.8% vs 12.6%). Tali risultati in ogni modo rimangono superiori ai limiti posti dalle linea guida basati sugli studi NASCET e ACAS, sebbene ci sia da considerare che in questi ultimi venivano esclusi dall’arruolamento proprio quei pazienti ad “alto rischio” oggetto dello studio SAPPHIRE (pazienti con occlusione della carotide controlaterale, con restenosi post-TEA, età > 80 anni, con severa co-morbilità associata etc.).
Inoltre la reale differenza di complicanze del gruppo ASC è dovuta essenzialmente all’alta incidenza di ischemia miocardia (IM) nel gruppo TEA. Senza calcolare infatti il tasso di IM non sussiste alcuna differenza statisticamente significativa tra i due gruppi.
Merito del SAPPHIRE è comunque di avere dimostrato attraverso una randomizzazione la fattibilità e l’efficacia dell’ ASC al pari della TEA nel trattamento delle stenosi carotide.
Senza sottovalutare il registro italiano dello stenting carotideo-RISC dove specialisti afferenti a quattro società scientifiche (SICVE- Chirurgia Vascolare; GISE- Cardiologia Invasiva; AINR- Neuroradiologia; SIRM – Radiologia Medica) hanno partecipato alla realizzazione di un Registro italiano che ha permesso di valutare la procedura di stenting carotideo eseguita su 1200 pazienti circa. I risultati pubblicati nell’ottobre 2004 hanno dimostrato un tasso di complicanze peri-procedurali dell’1.8%, con percentuali migliori per le procedure eseguite con protezione cerebrale.
Il tasso complessivo di eventi neurologici avversi duranti 24 mesi di follow-up è stato del 2.7% (2.0% stroke, 0,7% morte). Il tasso di restenosi > 50% appena del 1.4%.
Quanto sopra per dimostrare che è ancora (ormai da più di trent’anni) la Comunità Scientifica Internazionale non riesce a trovare un punto di incontro sulla metodologia di stenting carotideo i cui risultati e la cui reale efficacia sono ancora oggetto di acceso e, potremmo dire, accanito dibattito.
La nostra certezza è che la metodica, se affidata ad operatori esperti che lavorano in centri ad alto volume di attività, possono garantire risultati in tutto per tutto sovrapponibili a quello della endoarterectomia.
A riprova di ciò si riporta la casistica di uno dei Centri più attivi e qualificati di Chirurgia Vascolare ed Endovascolare d’Italia, presso l’Università di Siena, e che indubbiamente può contare su numeri interessanti.
Dal dicembre 2000 al dicembre 2010 sono stati trattati presso quel Dipartimento 4627 stenosi carotidee extra craniche. In 2349 casi (50.7%) è stata eseguita una tromboendoarterectomia carotidea, in 2278 (49.3%) uno stenting carotideo. L’algoritmo nella selezione dei pazienti per la ASC prevede generalmente alcune indicazioni assolute alla metodica (restenosi post TEA, stenosi attiniche, collo con pregressa chirurgia demolitiva e pazienti con alta co-morbilità considerati inoperabili chirurgicamente anche in anestesia loco-regionale). Al di là di queste indicazioni assolute in casi selezionati è stata eseguita là ASC per pazienti di età superiore a 70-75 anni, prendendo comunque sempre in esame anche le caratteristiche morfo-strutturali della placca carotidea evidenziabile all’esame eco-color-Doppler (evitando placche estremamente soft o estremamente calcifiche).
Il successo tecnico iniziale stato del 99. 5%. I 12 casi di insuccesso sono stati tutti per impossibilità di ottenere un incanalamento stabile della carotide comune per presenza di arco aortico complesso ed eccessiva tortuosità dei vasi epiaortici. Tutte le procedure portate a termine con successo tecnico iniziale sono state eseguite con protezione cerebrale, senza che siano state riscontrate differenze statisticamente significative nei risultati dei diversi sistemi.
Questa significativa casistica permette di ribadire che l’operatore esperto può affrontare con soddisfazione qualunque metodica, ottenendo risultati di altissimo livello.
In realtà la diatriba tra la scelta di chirurgia “a cielo aperto” piuttosto che per via endovascolare non avrebbe ragione di esistere: è sufficiente ricordare le regole fondamentali valide per ogni Operatore e cioè “fare ciò che si sa fare meglio” e, potendo fare entrambe le metodiche, selezionare quella “su misura” per ogni paziente.

Conclusioni

Come si è visto, non si può pensare di trattare la terapia chirurgica delle carotidi senza avere, necessariamente, una preparazione clinica, di semeiotica medica e chirurgica, di diagnostica strumentale e, aggiungo, esperienza “sul campo”.
Ovviamente questa è una considerazione personale ma certamente è un messaggio che mi è stato trasmesso dalla Scuola Universitaria di Milano che mi ha formato ed alla quale sono grato. Affrontare le patologie dei Tronchi Sovraaortici (TSA) vuol dire conoscere non solo la tecnologia che ci viene a dare una grossa mano, ma anche valutare e cosa è meglio fare e come indirizzare nel fare.
Esistono le linee guida che indubbiamente aiutano per la stragrande maggioranza dei casi, ma molto spesso vi sono situazioni cliniche che escono da queste direttive oppure si prestano a più soluzioni.
Infine, forse come raramente capita, il trattamento chirurgico delle patologie carotidee interseca una serie di Branche Specialistiche dove tutte, o quasi tutte, hanno una corretta ragione per esserci: in pratica questa è una patologia polispecialistica.
Questa è una patologia che, se diagnosticata per tempo, e trattata adeguatamente, può salvare la vita e ridurre l’ictus ischemico.
Il valore di questa situazione si traduce, alla lunga, in una potenziale migliore qualità della vita e persino una riduzione del costo sociale. Vanno comunque ridotti drasticamente i fattori di rischio quali fumo, cardiopatie, dislipidemie ed ipertensione.

Domande

1) La patologia delle carotidi è prevalentemente su base
– ereditaria, familiare
– aterosclerotica
– individuale
– da collocazione geografica

2) La patologia delle carotidi può prevedere anche un interessamento delle vene giugulari?
– molto spesso
– sempre
– mai
– solo nei fumatori

3) La patologia steno-ostruttiva delle carotidi in genere è isolata o può essere parte di una malattia arteriosa polidistrettuale?
– molto spesso fa parte di una patologia polidistrettuale
– mai, infatti è una patologia arteriosa isolata
– sempre, ma solo quando è coinvolto il lato sinistro
– si, ma solo per gli uomini sopra i 60 anni

4) Nell’ordine, i fattori di rischio più importanti sono:
– ipertensione, età, fumo, dislipidemia
– fumo, dislipidemia, età, ipertensione
– cardiopatia ischemica, diabete, essere donna, l’obesità
– la claudicatio agli arti, il diabete, l’aneurisma aortico

5) La procedura chirurgica per una stenosi carotidea asintomatica anderebbe generalmente fatta con grado di stenosi di:
> 40% di stenosi
> 50% di stenosi
> 70% di stenosi
> 90% di stenosi

6) Quando la carotide interna risulta ostruita si opera comunque?
– si ma solo se è la destra
– no perché non si può più far nulla
– talvolta, dipende dai sintomi
– certamente sempre, indipendentemente dal lato

7) La tecnica di TEA prevede sempre l’anestesia generale o si può fare anche in locoregionale?
– si possono fare entrambe
– si fa solo in anestesia generale
– si fa sempre in anestesia locoregionale
– la locoregionale andrebbe evitata

8) L’operazione per via endovascolare richiede l’utilizzo di device protettivi?
– mai, non servono a nulla
– si, ma solo in casi selezionati
– si, ma solo se si impianta uno stent
– si, sempre

9) La TEA della carotide prevede delle particolari forme di monitoraggio?
– si, sempre indipendentemente dal tipo di anestesia impiegata
– si, sempre ma sono dipendenti dal tipo di anestesia, generale o locoregionale
– dipende dall’anestesista
– dipende dal lato che si vuol operare

10) La chirurgia endovascolare si effettua su pazienti selezionati?
– va bene per tutti
– si fa solo per le arterie molto piccole
– può andare bene sempre, ma in genere si effettua in casi selezionati
– solo per i cardiopatici e diabetici

11) Gli ictus e le ischemie cerebrali sono un fenomeno che derivano solo da una patologia carotidea?
– no, può derivare per esempio anche da una serie di cardiopatie, in genere aritmie e fattori ipertensivi
– si, tutti gli altri distretti hanno una importanza trascurabile
– no, solitamente sono provocati da traumi cerebrali
– si decide sulla base della visita cardiologica

12) L’esame più specifico ed immediato per valutare la presenza ed il tipo di placca stenosante è:
– angioRM
– auscultare col fonendoscopio
– l’ecoDoppler
– l’ipercolesterolemia

13) L’esame ecoDoppler permette di capire il grado di stenosi, il tipo di placca oppure entrambe?
– Si valuta il grado di stenosi ma non la placca
– Si può valutare la placca ma solo se questa è calcifica
– Si possono valutare entrambe le cose indipendentemente dal tipo di placca
– Si valuta solo la stenosi

14) La localizzazione della placca stenosante del distretto carotideo extracranico è prevalentemente
– Alla carotide comune
– Alla biforcazione carotidea
– Alla biforcazione carotidea con estensione verso la carotide interna
– Alla biforcazione carotidea con estensione alla carotide esterna

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